Dei dell’olimpo e miti

Eccoci qui a parlare di uno, in mia opinione, dei più affascinati argomenti di cui si possa trattare ovvero dei miti, eroi greci e romani. In questo periodo ho iniziato molti progetti e difatti uno di questi e proprio questo a cui presto allegherò anche una mia testina fatta al solo scopo di interesse personale e magari per qualcuno a cui piace l’argomento a scopo acculturativo.



In primo luogo vorrei premettere che tutto ciò che scriverò è una sintesi della raccolta fatta su alcuni siti molto interessanti che trattando dell’argomento e inizierei subito con una piccola introduzione delle origini :

Ciò che accomuna la storia dei vari popoli (greca, latina, africana, cinese, etrusca, indiana, ecc.) è che ai primordi di ogni civiltà, ci fossero tanti racconti di dei e d’eroi con altrettanti miti e/o leggende, attraverso i quali era spiegata ogni cosa del creato. La raccolta e’ talmente ricca che lo scrittore più creativo del genere fantasy o fantascienza, non riuscirebbe a stargli dietro.

Non è nostra intenzione con questa rubrica analizzare la mitologia da un punto di vista epistemologico, cioè di critica della scienza dei miti. Vogliamo semplicemente raccontare come i diversi popoli, attraverso le gesta di dei ed eroi, come personificazione dei fenomeni naturali, abbiano spiegato i tanti misteri della natura. Ogni popolo si è infatti adoperato nel narrare una propria cosmogonia, offrendo una raccolta tanto ricca da trasportarci ora nell’Olimpo dei Greci, ora al Pantheon dei Romani, ora alla Corte di Odino o ai totem indo-americani, ora ai feticci dei negri-africani o alla teocrazia dei Messicani ed Aztechi e tanti altri ancora.

Inizieremo la nostra avventura con dei racconti tratti dalla mitologia greca. E’ infatti nostra convinzione il primato spettante a questo popolo (senza con questo sminuire i livelli artistici, letterari e culturali degli altri popoli) nelle arti umanistiche, che ci ha donato il più straordinario complesso di pensatori che mai nessuna nazione al mondo ha posseduto. Il popolo greco ha avuto, tra l’altro, l’indiscusso primato di rendere le proprie convinzioni attraverso delle “favole” tanto romantiche, potenti ed eroiche, da affascinare generazioni e generazioni di lettori.

Di seguito voglio allegarvi alcuni fra i miti più conosciuti e altri un pò meno metterli tutti diventerebbe un pò lunga quini mi limito a questa breve  sintesi anche solo per vedere se riesco magari ad interessare qualcun altro a questa cultura così antica e affascinante.

MITO DI PERSEO

Dell’epoca in cui il mito era storia, si racconta che nella lontana città di Argo, regnasse il re Acriso, figlio di Abante e di Ocalea, assieme alla sua sposa Euridice (o Aganippe secondo altri) e alla loro figlia Danae.

La tragica storia di re Acriso ebbe inizio quando si recò a Delfi per consultare l’oracolo perchè, non riuscendo ad avere figli maschi, era preoccupato per la sorte del suo regno non sapendo a chi dover lasciare i suoi possedimenti. Il responso dell’oracolo fu travolgente in quanto gli predisse che non solo non avrebbe avuto figli maschi ma che un giorno sarebbe morto per mano di suo nipote, il futuro figlio di sua figlia Danae.

Statua di Perseo, Cellini, Loggia dei Lanzi, Piazza della Signoria, Firenze, Italia
Perseo (Nota 2)

Il re, terrorizzato dalla profezia, fece rinchiudere la figlia in una torre dalle porte di bronzo sperando in questo modo che non fosse avvicinata da nessun uomo.

Ma Zeus che dall’alto dell’Olimpo seguiva le vicende dei mortali, impietosito dalla sorte toccata alla giovane fanciulla e invaghitosi di lei, entrò nella sua cella sotto forma di pioggia di gocce d’oro e concepì con lei quello che un giorno sarebbe diventato uno dei più grandi uomini dell’antichità: Perseo .

Re Acriso, scoperta la gravidanza della figlia che fu costretta a confessare le origini divine del figlio, nonostante la paura e la grande rabbia, non ebbe il coraggio di ucciderla ma aspettò che il bambino nascesse, per rinchiudere entrambi in una cassa che abbandonò alla deriva in mezzo al mare. La loro sorte sarebbe stata sicuramente segnata se Zeus non avesse sospinto la cassa verso le rive dell’isola di Serifo, nelle Cicladi, dove il pescatore Ditti la trovò e una volta aperta, si accorse che la donna e il bambino erano ancora vivi. Immediatamente li portò dal re Polidette, suo fratello, che li accolse nella sua reggia.

Passarono gli anni e Perseo, circondato dall’amore della madre, cresceva forte e valoroso. Danae, che la maturità aveva reso ancora più bella, era diventata oggetto dei desideri del re Polidette che cercava in tutti i modi di convincerla a sposarlo ma Danae, il cui unico pensiero era il figlio, non ricambiava il suo amore. Polidette allora cercò di averla con l’inganno: finse di voler sposare Ippodamia, figlia di Pelope e chiese ai suoi amici di fargli come dono nuziale un cavallo a testa. Perseo, che non possedeva e non poteva comprare un cavallo per donarlo al re, si scusò e disse imprudentemente che gli avrebbe procurato qualunque altro dono.

A quel punto Polidette, gli chiese di portargli la testa della Gorgona Medusa questo nella speranza che morisse nell’impresa in quanto mai nessun mortale era riuscito in una simile avventura e in questo modo la madre, priva dell’unico conforto della sua vita, avrebbe ceduto e l’avrebbe sposato.

Narra la leggenda che Medusa una delle tre Gorgoni (Medusa, Euriale, Steno), l’unica alla quale il fato non avesse concesso l’immortalità, era un tempo tra le donne più belle. Invaghitasi di Poseidone, aveva fatto con lui l’amore nel tempio d’Atena. Quest’ultima profondamente irritata dall’affronto subito, aveva trasformato la fanciulla in un orribile mostro: le mani le aveva trasformate in pezzi di bronzo; aveva fatto comparire delle ali d’oro e ricoperto il corpo di scaglie; i denti erano diventati simili alle zanne di un cinghiale; i capelli erano stati trasformati in serpenti e al suo sguardo aveva dato la capacità di trasformare in pietra chiunque la guardasse negli occhi.

Testa di Medusa, Bernini, Musei Capitoli (Appartamento dei Conservatori, Sala delle Oche), Roma, Italia
Medusa (Nota 3)

Narra Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 799-801): “La figlia di Giove si voltò e si coprì con l’egida il casto volto, ma, perchè quell’oltraggio non restasse impunito, mutò in luride serpi i capelli della gorgone“.

Mentre di lei scrisse Dante Alighieri nel IX canto dell’inferno (51-57): “Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso: che se il Gorgon si mostra, e tu il vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso“.

L’impresa che stava per affrontare non era facile e sicuramente non sarebbe riuscito a superarla se Atena ed Ermes non fossero accorsi in suo aiuto. La prima gli donò uno scudo lucente e ben levigato, attraverso il quale guardare riflessa la Gorgona ed evitare così di essere pietrificato dallo sguardo; il secondo una spada con cui decapitarla in quanto le sue squame erano più dure del ferro.

Tali armi non erano però ancora sufficienti per riuscire nell’impresa, così i due dei gli suggerirono di farsi donare dalle Ninfe i calzari alati per volare veloce nel regno di Medusa, l’elmo di Ade che rendeva invisibile chi lo portasse e una sacca magica nella quale riporre la testa di Medusa, una volta tagliata in quanto i suoi poteri non sarebbero venuti meno con la morte e i suoi occhi sarebbero stati ancora in grado di pietrificare.

Riuscire a trovare la dimora delle Ninfe non era semplice in quanto nè Ermes nè Atena ne erano a conoscenza e pertanto suggerirono a Perseo di recarsi presso le tre Graie per estorcergli con una stratagemma la preziosa informazione.

 Particolare della Statua di Perseo, Cellini, Loggia dei Lanzi, Piazza della Signoria, Firenze, Italia
Particolare statua Perseo (nota 2)

Erano queste sorelle delle Gorgoni e non avevano mai conosciuto la giovinezza in quanto nate vecchie. Avevano il corpo di cigno e possedevano insieme un solo dente e un unico occhio che si scambiavano vicendevolmente per mangiare e vedere. Perseo, arrivato nella loro dimora, si nascose e attese che una di loro si togliesse l’occhio dalla fronte per passarlo a una sorella e glielo rubò, rifiutandosi di restituirlo se prima non gli avessero indicato la via per arrivare al regno delle Ninfe. All’intimazione le tre sorelle, terrorizzate dall’idea di restare cieche obbedirono, e così Perseo poté raggiungere le Ninfe che gli donarono la bisaccia, i calzari alati e l’elmo di Ade.

Così equipaggiato volò nell’isola dove dimoravano le tre Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa) che trovò addormentate. Forte dei consigli di Ermes e d’Atena si avvicinò a Medusa, nel paesaggio desolato di uomini e animali che il suo sguardo aveva pietrificato, camminando all’indietro e guardandola riflessa nello scudo lucente. Non appena le fu vicino vibrò il colpo mortale che tagliò di netto la testa mentre i serpenti tentavano in tutti i modi di avvolgerlo nelle loro spire.

Pegaso, il cavallo alato di Perseo
Pegaso (Nota 4)

Presa la testa la ripose immediatamente nella bisaccia mentre dal sangue che sgorgava copioso nacque Pegaso il magico cavallo alato che divenne il suo fedele compagno.

Le sorelle della vittima cercarono in tutti i modi di inseguirlo ma grazie all’elmo di Ade che lo rendeva invisibile e al magico Pegaso, riuscì a sfuggire, volando via veloce come il pensiero da quell’isola tetra e nefasta.

Disse Ovidio di Pegaso: “Fu terra il ciel e furono piedi le ali“.

Approdò per riposare nella regione dell’Esperia, dove regnava il titano Atlante. Era questo molto sospettoso e diffidente nei confronti degli estranei in conseguenza di una profezia secondo la quale il suo regno sarebbe stato distrutto da uno dei figli di Zeus. Inavvertitamente Perseo (che non sapeva della profezia) gli rivelò la sua origine divina e all’apprenderla, Atlante cercò di ucciderlo. Il giovane, sorpreso dalla sua reazione fu costretto a difendersi in una lotta impari contro il Titano fino a che, aperta la bisaccia dove teneva la testa di Medusa, pose fine al combattimento in quanto Atlante iniziò a pietrificarsi trasformandosi in un’alta montagna.

Racconta Ovidio nelle Metamorfosi (IV 650-662): “Gli mostrò l’orribile testa della Gorgone. Altlante si mutò quasi all’istante in un’alta montagna: boschi diventarono la sua barba e le sue chiome, cime le spalle e le braccia; quello che prima era la testa, divenne la vetta del monte; rocce divennero le ossa; cresciuto in tutte le sue parti, si ingigantì in una immensa mole ….

Narra pertanto la leggenda che da Atlante prese origine il sistema montuoso omonimo e poiché era molto alto, si affermò che Atlante reggesse sulle sue spalle la volta celeste.

Perseo, ancora sorpreso da quanto era accaduto riprese il suo volo verso casa, percorrendo una terra arida e desolata, senza accorgersi che alcune gocce di sangue fuoriuscivano dalla bisaccia che conteneva la testa di Medusa che cadendo nel terreno davano origine a tanti serpenti velenosi i quali in seguito avrebbero popolato per sempre il deserto.

Serpente a sonagli
Nota 5

Volava ora Perseo sopra le terre degli Etiopi quando intravide una bellissima giovane fanciulla nuda incatenata a uno scoglio. La fanciulla era Andromeda figlia del re d’Etiopia Cefeo e della sua sposa Cassiopea. La giovane donna scontava una colpa commessa dalla madre che stimolata dalla vanità si era dichiarata più bella delle Nereidi (ninfe del mare). Quest’ultime, capricciose e maligne, offese da tanta presunzione, avevano chiesto vendetta al loro protettore Poseidone che aveva inviato in quelle terre, dalle oscure profondità marine, un mostro che devastava tutto ciò in cui si imbatteva. Consultato l’oracolo di Ammone per sapere che cosa si potesse fare per placare l’ira delle dee, il responso fu che Cassiopea offrisse sua figlia Andromeda all’orribile creatura marina. Perseo, sdegnato da una simile sorte, si offrì di mutare il destino della fanciulla, combattendo il mostro e mettendo quindi fine alla maledizione in cambio della mano d’Andromeda. Il re Cefeo, accettò l’offerta e così Perseo, salito in groppa a Pegaso, si portò alle spalle del mostro calando dal cielo come un’ombra per tentare di trafiggerlo. Più volte era sul punto di essere sopraffatto fino a quando, aperta la sacca, prese la testa di Medusa che rivolta verso il mostro lo pietrificò all’istante.

Finita la lotta, mentre Perseo liberava Andromeda, delle Ninfe del mare incuriose, rubarono un po’ del sangue che fuoriusciva dalla testa di Medusa che a contatto dell’acqua marina si trasformava in coralli. Da quel momento i fondali marini furono deliziati dalla presenza di questi straordinari echinodermi.

Ramo di corallo

Perseo, prima di lasciare il luogo della lotta innalzò tre altari uno a Ermes, uno ad Atena e uno a Zeus e dopo aver fatto ciò con Andromeda, il re Cefeo, Cassiopea e tutto il popolo che aveva assistito alla lotta, si incamminò verso la reggia dove si diede subito inizio al banchetto nuziale tra Perseo e Andromeda, in un clima di grande allegria. Ma le disavventure non erano ancora finite. Infatti, fece ingresso nella sala del banchetto Fineo, fratello del re Cefeo, promesso sposo d’Andromeda. Questi, reclamava Andromeda pur avendone perso il diritto nel momento in cui aveva lasciato che la stessa andasse in sacrificio al mostro. Nella sala nuziale si scatenò una cruenta lotta. Fineo, con l’aiuto di molti alleati iniziò a combattere contro Perseo che stava per essere sopraffatto dalla moltitudine dei nemici quando, aperta la sacca magica, mostrò la testa di Medusa che ancora una volta portò la morte ai suoi nemici, pietrificandoli uno dopo l’altro.

Stanco e sconfortato da tanti lutti che aveva arrecato, Perseo e Andromeda decisero di lasciare la terra degli Etiopi per ritornare a Serifo, dalla madre Danae dove arrivarono appena in tempo per salvarla dalla morte alla quale il re Polidette l’aveva condannata perché continuava a non ricambiare il suo amore. Il re, messo di fronte alla testa di Medusa, fu pietrificato all’istante.

Mito di Perseo: particolare della statua di Atena
Atena (Nota 6)

Ora che Polidette era morto, madre e figlio potevano finalmente fare ritorno alla loro terra natale, Argo, per riconciliarsi con re Acriso, verso il quale gli anni avevano oramai cancellato il risentimento. Perseo, messo a capo della città di Serifo Ditti, riconsegnati i calzari e l’elmo alle Ninfe e la spada a Ermes e dopo aver donato la testa di Medusa ad Atena che la poneva come trofeo in mezzo al suo petto (foto al lato), con la madre e Andromeda salpava alla volta di Argo mentre il magico Pegaso volava via verso l’Olimpo.

Re Acriso, padre di Danae, saputo dell’arrivo del nipote e di sua figlia, per paura dell’antica profezia fuggì via dal suo regno e riparò a Larissa in Tessaglia.

Sembrava che finalmente il triste destino di Perseo di portare morte e distruzione fosse finito ma così non era.

Oramai famoso in tutte le terre conosciute, fu invitato a partecipare in Tessaglia a Larissa a delle gare sportive e mentre lanciava il disco, la potenza impressa allo stesso fece si che questo andasse oltre gli spalti, per colpire uno sfortunato spettatore che altri non era che re Acriso che si era mischiato tra la folla. Scoperta la triste fine toccata al nonno al quale Perseo, nonostante tutto voleva bene, triste e sfiduciato fece rientro ad Argo ma non accettò di diventare re anche se gli spettava di diritto ma cambiò il suo trono con quello di Tirinto che apparteneva al cugino Megapente che fu lieto dello scambio in quanto molto più vantaggioso per lui.

Negli anni che seguirono Perseo regnò in pace e con saggezza fino alla fine dei suoi giorni, fondando tra l’altro il regno di Micene così chiamato perchè un giorno potè dissetarsi presso un ruscello che era sgorgato miracolosamente da un fungo (mycos = fungo).

Perseo e Andromeda ebbero molti figli tra cui i più famosi furono Alceo che ebbe come figlio Anfitrione la cui moglie Alcmena ebbe da Zeus, il mitico Eracle; Elettrione, Stenelo e Gorgofone.

Alla morte di Perseo, la dea Atena, per onorare la sua gloria, lo trasformò in una costellazione cui pose affianco la sua amata Andromeda e la madre Cassiopea la cui vanità aveva fatto si che i due giovani si incontrassero. Ancor oggi, alzando lo sguardo verso il cielo, possiamo ammirare le tre costellazioni a ricordo della loro vita e soprattutto del grande amore dei due giovani.

Costellazione di Perseo

MITO DI PAN

Sono numerose le leggende che si narrano attorno alla figura del dio Pan. Alcuni affermano che fosse figlio di Zeus e di Callisto altri di Ermes e della ninfa Driope (o Penelope) che, subito dopo averlo messo al mondo, lo abbandonò tanto era rimasta inorridita dalla sua bruttezza. Era infatti Pan, più simile a un animale che a un uomo in quanto il corpo era coperto da ispido pelo; dalla bocca spuntavano delle zanne ingiallite; il mento era ricoperto da una folta barba; in fronte aveva due corna e al posto dei piedi aveva due zoccoli caprini.

Ermes, impietosi da questo bambino al quale la natura non aveva certo fatto dono di alcuna grazia, decise di portarlo nell’Olimpo al cospetto degli altri dei, dove, nonostante il suo aspetto, fu accolto con benevolenza. Pan infatti aveva un carattere gioviale e cortese e tutti gli dei si rallegravano alla sua presenza(2). In particolare Dioniso lo accolse con maggior entusiasmo tanto che divenne uno dei suoi compagni prediletti e insieme facevano scorribande attraverso i boschi e le campagne rallegrandosi della reciproca compagnia.

Pan era fondamentalmente un dio silvestre che amava la natura, amava ridere e giocare. Amò e sedusse molte donne tra le quali la ninfa Eco e Piti, la dea Artemide e Siringa, figlia della divinità fluviale Ladone, della quale si innamorò perdutamente. La fanciulla però non solo non condivideva il suo amore ma quando lo vide fuggì inorridita, terrorizzata dal suo aspetto caprino. Corse e corse Siringa inseguita da Pan e resasi conto che non poteva sfuggirgli iniziò a pregare il proprio padre perchè le mutasse l’aspetto in modo che Pan non potesse riconoscerla. Ladone, straziato dalle preghiere della figlia, la trasformò in una canna nei pressi di una grande palude.

Flauto di Pan

Pan, invano cercò di afferrarla ma la trasformazione avvenne sotto i suoi occhi. Afflitto, abbracciò le canne ma più nulla poteva fare per Siringa. A quel punto recise la canna, la tagliò in tanti pezzetti di lunghezza diversa e li legò assieme. Fabbricò così uno strumento musicale al quale diede il nome di “siringa” (che ai posteri è anche noto come il “flauto di pan”) dalla sventurata fanciulla che pur di non sottostare al suo amore, fu condannata a vivere per sempre come una canna.

Narra Ovidio (Metamorfosi): “Pan che, mentre tornava dal colle Liceo, la vide, col capo cinto d’aculei di pino, le disse queste parole…». E non restava che riferirle: come la ninfa, sorda alle preghiere, fuggisse per luoghi impervi, finché non giunse alle correnti tranquille del sabbioso Ladone; come qui, impedendole il fiume di correre oltre, invocasse le sorelle dell’acqua di mutarle forma; come Pan, quando credeva d’aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica: «Così, così continuerò a parlarti», disse e, saldate fra loro con la cera alcune canne diseguali, mantenne allo strumento il nome della sua fanciulla.

Pan che suona il flauto, Affresco, Reggia di Caserta (Italia)
Pan che suona il flauto, Affresco, Reggia di Caserta (Italia)

Da allora Pan tornò a vagare nei boschi correndo e danzando con le ninfe e a spaventare i viandanti che attraversavano le selve: al dio infatti si attribuivano i sordi rumori che si udivano la notte (da qui il detto “timor panico” o semplicemente “panico”).

Ecco come lo scanzonato Luciano (Dialoghi VIII) lo descrive:

“Pane (N R. alias Pan). Buon di, o babbo mercurio
Mercurio. Buon di; ma, come io ti sono padre?
P. Non sei tu il Cilennio Mercurio?
M. Si, sono; ma come tu mi se’ figliolo?
P. Sono tuo bastardello, e nato d’amore
M. Per Giove! bastardo forse di un becco e di una capra. Tu, mio, se hai le corna, e cotesto naso, e la barba
irsuta, e i piè forcuti e caprini, e la coda sulle natiche?
P. Con queste ingiurie che dici a me tu dimostri la bruttezza del figliol tuo, o padre. le stariano meglio a te,
che sai far figlioli di questo garbo. Che colpa ci ho io?
M. Chi tieni tu per madre? O mi sarei accozzato con una capra io?
P. Non una capra, ma ricordati bene, se mai in Arcadia facesti violenza a una fanciulla libera. Ti mordi il dito:
che cerchi? e non ricordi? la figliuola d’Icaro, Penelope.
M. E perchè ella ti fece non simile a me, ma ad un caprone?
P. Ti dirò proprio io le parole sue. Quando ella mi mandò in Arcadia, mi disse: O figliuolo, io sono tua madre
penelope Spartana; e sappi che hai per padre il dio Mercurio, prole di Maia e di Giove.
Se tu hai le corna ed i piedi forcuti, non dispiacertene; perchè quando tuo padre mescolossi con me,
per nascondersi, prese la somiglianza di un capro; e però tu se’ venuto simile ad un capro.
M. Per Giove. Mi ricordo di una certa scappata. Dunque io che vo superbo per bellezza, e sono ancora imberbe,
sarò chiamato tuo padre, e a mie spese farò ridere la gente per si bella figliolanza.
P. Io non ti fo vergogna, o padre; chè io son musico, e so sonar la siringa molto bravamente.
Bacco non può far nulla senza di me, e mi ha fatto suo compagno ed agitatore del tirso, ed io gli guido i balli.
Se tu vedessi le greggie mie, quante ne ho in Arcadia e sul Partenio, ne saresti assai lieto.
Io sono signore in tutta Arcadia. Ultimamente porsi un grande aiuto agli Ateniesi, e combattei con tanto
valore a Maratona, che in premio mi diedero una spelonca sotto la cittadella. Se talora vieni in Atene,
vi udirai chi è Pane.
M. Dimmi, hai tolto moglie, o Pane? così mi pare che ti chiamino
P. No, o padre: io sono focoso, e non sarei contento di una
M. E certamente abbranchi le capre
P. Tu motteggi, io mi sollazzo: con Eco, con Piti, e con tutte le Menadi di Bacco: e le mi vogliono un gran bene.
M. Sai, o figliuolo, che cosa mi farai graditissima, e che io richiedo da te?
P. Comanda, o Padre: vediamo
M. Vieni a me, ed abbracciami pure; ma guardati di chiamarmi padre innanzi agli altri.”

 MITO DELLA NASCITA DEL MONDO ( REGNO DI URANO E CRONO)

fidando il lungo cammino del tempo sono giunte sino a noi storie, miti e leggende sulla nascita dell’universo. Gli antichi greci raccontano che all’inizio esisteva solo lo spazio cosmogonico vuoto e senza fine. Non esistevano le stelle. Non esisteva la terra. Non esisteva alcuna cosa del creato. ERA SOLO IL CAOS, senza forma, al di là del tempo e dello spazio.

All’improvviso dal Caos apparve Gea, la madre terra, principio di vita e madre degli uomini e della stirpe divina, prima realtà materiale della creazione. Dopo di lei apparvero Eros l’amore; il Tartaro luogo di punizione delle anime malvagie; l’Erebo la notte.

GEA GENERO’ DA SOLA URANO il cielo (che feconda la terra con una pioggia benefica) con il quale si unì e dalla cui unione nacquero i dodici Titani, sei maschi (Oceano, Ceo, Crio, Iperione, Giapeto, Crono) e sei femmine (Tea, Rea, Temi, Teti, Febe, Mnemosine); i tre Ecatonchiri o Centimani, Briareo, Gia e Cotto mostri con cinquanta teste e cento braccia; i tre Ciclopi Bronte, Sterope e Arge tutti con un solo occhio in mezzo alla fronte.

GEA GENERO’ DA SOLA PONTO il mare con il quale si unì e dal quale ebbe Taumante che secondo alcuni fu padre delle Arpie; Forco, la personificazione del mare in tempesta; Ceto la personificazione delle insidie che si celano nel mare in tempesta ed Euribia personificazione della violenza tempestosa del mare .

In quel tempo Gea scelse Urano come sposo e iniziò così il REGNO DI URANO, che assieme a Gea governavano il creato.

Urano, disgustato dall’aspetto mostruoso dei suoi figli, i Giganti, gli Ecatonchiri e i Ciclopi, e ossessionato dall’idea che potessero privarlo un giorno del dominio dell’universo, li fece sprofondare al centro della terra.

Gea, triste e irata per la sorte che il suo sposo aveva destinato ai figli, decise di reagire. Costruì, all’insaputa di Urano, una falce con del ferro estratto dalle sue viscere e radunati i suoi figli, chiese a tutti di ribellarsi al padre.

Nascita del mondo: La mutilazione di Urano da parte di Crono - Giorgio Vasari
Particolare di Giorgio Vasari, La mutilazione di Urano da parte di Crono (XVI secolo), Palazzo Vecchio, Firenze (Italia)

Uno solo, il più giovane osò seguire il consiglio della madre, il titano Crono che armato dalla madre, si nascose nella Terra e attese l’arrivo del padre. Era infatti abitudine di Urano, discendere la notte dal cielo per abbracciare la sua sposa nell’oscurità. Non appena Urano si presentò, Crono saltò fuori e con una mano immobilizzò il padre mentre con l’altra lo evirava con il falcetto.

Nascita del mondo: La mutilazione di Urano da parte di Crono - Giorgio Vasari
Giorgio Vasari, La mutilazione di Urano da parte di Crono (XVI secolo), Palazzo Vecchio, Firenze (Italia)

Il sangue che sgorgava copioso dalla ferita fecondò Gea dalla quale nacquero le Erinni divinità infernali; le ninfe Meliadi (ninfe dei Frassini) protettrici delle greggi; i Giganti creature gigantesche dalla forza spaventosa, simbolo della forza bruta e della violenza sconvolgitrice della natura quali i terremoti e gli uragani. Dalla spuma delle onde creata dai genitali di Urano che cadevano nel mare, si generò Afrodite la dea dell’amore.

Urano, riuscì però a scappare lontano e da allora mai più si avvicinò alla terra, sua sposa.

Il governo della terra, sarebbe toccato al più anziano, Oceano (uno dei Titani), ma Crono, con l’inganno riuscì a impossessarsi del trono e a regnare sul creato.

Iniziò così il REGNO DI CRONO.

La prima cosa che fece Crono fu quella di liberare i suoi fratelli dalla prigionia alla quale il padre li aveva relegati a eccezione dei Ciclopi e degli Ecatonchiri nei confronti dei quali nutriva seri dubbi sulla loro lealtà nei suoi confronti. Questo fu un grave errore da parte sua, errore che, negli anni a venire, gli sarebbe costato molto caro.

Per continuare l’opera della creazione Crono, scelse come sposta Rea (una dei Titani), sua sorella.

Nascita del mondo: Crono con una falce in mano - Affresco pompeiano
Crono rappresentanto
con una falce in mano,
Affresco pompeiano
Nascita del mondo: Crono divora Poseidone, dipinto di Rubens
Pieter Paul Rubens (1577 – 1640), Crono divora Poseidone, olio su tela, Museo del Prado, Madrid (Spagna)

Nel frattempo, la grande opera della creazione continuava e numerose divinità apparivano:

– le Graie e le Gorgoni;
Thanatos la morte, Eris la discordia, Nemesi la vendetta, le Moire , il destino (tutti figli di Erebo, la notte);
Elios il sole, Selene la luna, Eos il mattino (tutti figli del Titano Iperione);
Iride l’arcobaleno e altre ancora.

Con Rea, Crono ebbe numerosi figli tra cui tre maschi Poseidone, Ade, Zeus, e tre femmine, Era, Demetra, Estia.

Sotto il regno di Crono la terra conobbe l’età dell’oro ma la sua tranquillità fu minata da un triste vaticinio: gli fu infatti predetto che il suo regno avrebbe avuto fine per mano di uno dei suoi figli. Terrorizzato, per tentare di ingannare il destino iniziò a divorare i suoi figli non appena nascevano, tenendoli così prigionieri nelle sue viscere.

Rea, disperata, subito dopo la nascita del suo ultimogenito Zeus, si recò da Crono e anziché presentargli il figlio, gli consegnò un masso avvolto nelle fasce che Crono ingoiò senza sospettare nulla.

Nel frattempo il piccolo Zeus era stato portato in una caverna del monte Ida nell’isola di Creta e affidato alle cure delle ninfe Melissa (o Ida) e Adrastea e secondo alcuni storiografi fu allattato dalla capra Amaltea mentre secondo Ovidio (Fasti, V, 115 e segg.) Amaltea era il nome della ninfa Amaltea che possedeva una capra che aveva due capretti la quale costituiva l’orgoglio del suo popolo per le superbe corna ricurve all’indietro e per le mammelle ricche di latte, degne di allattare il grande Zeus.

Nascita del mondo: Rea che consegna a Crono una pietra al posto di Zeus
Rea che consegna a Crono una pietra al posto di Zeus

Un giorno la capra si spezzò un corno urtando contro un albero perdendo metà della sua bellezza. Il corno fu raccolto da Amaltea che lo ricolmò di frutta ed erbe e lo donò a Zeus (1). Anche l’ape Panacride nutriva Zeus dandogli il miele e un’aquila gli portava ogni giorno il nettare dell’immortalità. I suoi pianti erano coperti dai Cureti che battevano il ferro per impedire ad alcuno di sentire i suoi vagiti.

Zeus quando fu grande a sufficiente salì in cielo e con l’inganno fece bere a Crono una speciale bevande preparata da Metis che gli fece vomitare i figli che aveva divorato e dopo ciò dichiarò guerra al padre.

Ebbe così inizio una lunga guerra che durò dieci anni che vide da una parte Crono, al cui fianco si schierarono i Titani e dall’altra Zeus, al cui fianco c’erano tutti i suoi fratelli.

Entrambe le parti si battevano senza esclusione di colpi. La terra era devastata dai Titani che con la loro forza cambiavano i contorni della terra, distruggendo montagne scagliandole nell’Olimpo, il monte più alto della Grecia, dove Zeus e i suoi fratelli avevano stabilito il proprio regno.

Nascita del mondo: Ciclopi che lavorano nella fucina di Efesto - Rilievo antico
Ciclopi che lavorano nella fucina di Efesto – Rilievo antico

La guerra sarebbe andata avanti ancora per parecchio tempo se Gea non fosse intervenuta per consigliare a Zeus di liberare i Ciclopi e stringere un’alleanza con loro. I Ciclopi, per ripagare Zeus di avergli reso la libertà fabbricarono per lui le armi che sarebbero entrate nella leggenda e con le quali avrebbe retto il suo regno dalla cima dell’Olimpo: le folgori.

Zeus liberò anche gli Ecatonchiri, che con le loro cento braccia iniziarono a scagliare una quantità infinita di massi contro gli alleati di Crono che assieme alle folgori scagliate da Zeus, decretarono la vittoria finale.

Sulla sorte che Zeus fece fare al padre Crono ci sono diverse ipotesi. Secondo alcuni gli fu concesso di regnare nelle isole dei Beati, ai confini del mondo. Secondi altri, fu condotto a Tule e sprofondato in un magico sonno secondo altri ancora fu incatenato nelle più profonde viscere della terra.

Certa è invece la sorte che fu destinata ai Titani: furono incatenati nel Tartaro, e la loro custodia fu affidata agli Ecantonchiri.

Racconta Luciano nei Saturnali in un singolare dialogo tra Crono detronizzato e vecchio e un suo sacerdote: ” (…) Crono: Ti dirò. In prima essendo vecchio e perduto di podagra (e questo ha fatto creder al volgo che io ero incatenato) io non potevo bastare a contenere la gran malvagità che c’è ora: quel dover sempre correre su e giù, a brandire il fulmine, e folgorare gli spergiuri, i sacrileghi, i violenti, era una fatica grande e da giovane; onde con tutto il mio piacere la lasciai a Zeus. E ancora mi parve bene di dividere il mio regno tra i miei figlioli , e io godermela zitto e quieto , senza aver rotto il capo da quelli che pregano e che spesso dimandano cose contrarie, senza dover mandare i tuoni, i lampi e talora i rovesci di grandine. E così da vecchio meno una vita tranquilla , fo buona cera, bevo del nettare più schietto, e mo un po’ di conversazioncella con Giapeto e con altri dell’età mia; ed egli si ha il regno e le mille faccende. (…)”

Terminava così il regno di Crono, secondo sovrano della divina famiglia e aveva inizio quella di Zeus, terzo sovrano e suo figlio.

MITO DI EDIPO

ITO DI
EDIPO
Edipo, mito di Edipo, Giocasta
Edipo e la Sfinge
Coppa attica V sec.a.C.

La storia ci tramanda come nella città di Tebe, il re Laio e la sua sposa Giocasta, vivessero felici come tutta la loro popolazione. Sfortuna volle che un giorno il re decise di interrogare l’oracolo di Delfi per chiedergli se avrebbe mai avuto figli. L’oracolo alla richiesta del re fu molto chiaro: gli predisse di guardarsi dal generare un figlio perchè, se fosse nato, avrebbe portato una grande sciagura a tutto il popolo tebano, uccidendo il sangue del suo stesso sangue e unendosi a colei che lo aveva generato. Laio, a sentire quelle parole rabbrividì tanto che quando, un po’ di tempo dopo, Giocasta rimasta incinta mise alla luce un bambino, di comune accordo con la moglie decise di abbandonarlo alle pendici del monte Citerone dopo avergli perforato le piante dei piedi, sicuro che le fiere e gli stenti lo avrebbeto ucciso. In questo modo, i due sovrani pensavano di aver aggirato la profezia.

Sfortuna volle però che il bimbo fosse trovato da Forba, un pastore che, sentiti i vagiti del piccolo, gli porse soccorso e lo portò da Polibo, re di Corinto. Sapeva infatti il pastore che il re non avendo avuto figli, avrebbe accolto come un dono del cielo quell’infante al quale diede nome Edipo che significava “dai piedi gonfi”.

Passarono gli anni ed Edipo cresceva forte e vigoroso circondato da tanto amore. Un giorno però un suo coetaneo durante un banchetto fece cenno alle sue origini oscure dicendogli che Polibo e la moglie Peribea, non erano i suoi veri genitori. A quelle parole Edipo decise di recarsi dall’oracolo di Delfi per sapere la verità e una volta arrivato ciò che ascoltò fu terribile: non avrebbe mai dovuto far ritorno in patria pena l’avverarsi di una antica maledizione.

Ecco come Sofocle racconta la vicenda nell’Edipo:

Apollo però non rispose apertamente alla mia domanda, e mi predisse, invece, lacrimevoli e orribili sciagure: essere mio destino mescolarmi in amore a mia madre, e aver da lei prole nefanda; inoltre avrei ucciso mio padre.

Edipo che affronta la sfinge
Oedipus et Sphinx (Edipo e la Sfinge)
Jean Auguste Dominique Ingre, 1808
Edipo sconvolto per quel responso, decise di non fare più ritorno a Corinto, convinto che quella fosse la sua vera patria e iniziò così a vagare in giro per il mondo. Un’anima in pena in cerca di un luogo dove fermarsi.

Il suo vagare lo portò nei pressi della città di Tebe. Arrivato in prossimità di una gola incontrò altri viaggiatori, con i quali inizia un alterco dai toni sempre più accesi che terminano con l’uccisione di un vecchio da parte di Edipo.

Ecco come Sofocle racconta la vicenda nell’Edipo:”Per timore che la rea profezia si avverasse, abbanbonai Corinto e, lasciandomi guidare dalle stelle, giunsi qui (a Tebe). Ero appena entrato in un trivio quando dall’opposta mia direzione si fece avanti preceduto dall’araldo, un cocchio in cui era un vegliardo. Il vecchio e l’auriga pretendevano che lasciassi libero il passo; sdegnato, percossi l’auriga e il vecchio, a tradimento, mi colpì in testa con una sferza a due punte: non identica fu la pena che egli ebbe, un colpo di mazza infertagli da questa mia mano lo fece precipitare dal cocchio.

Proseguendo Edipo il suo viaggio arrivò a Tebe dove incontra Giocasta che, a causa della misteriosa morte del marito, regnava assieme al fratello Creonte. Edipo si trovò di fronte una città sull’orlo della distruzione a causa di una grandissima minaccia: una sfinge, un essere per metà uomo e per metà leone alato, inviata da Era alla quale la popolazione di Tebe aveva arrecato offesa, che decimava la popolazione perchè nessun uomo o donna era in grado di rispondere ai suoi enigmi. Arrivato Edipo e decidendo che quella sarebbe stata una bella città per poter passare il resto della sua vita, decise di affrontare la Sfinge. Quando Edipo fu davanti alla creatura alata, ascoltò l’enigma che recitava:”chi è quell’animale che al mattino cammina a quattro zampe, al pomeriggio con due e alla sera con tre?” La risposa di Edipo fu rapida: l’uomo. Così Tebe fu liberata dalla maledizione.

Grande fu la gioia di tutta la popolazione e della stessa Giocasta che, innamoratasi del giovane, gli propose di sposarla e di regnare con lei su Tebe. Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Eteoclo, Polinice, Antigone e Ismene. Poco dopo però a Tebe scoppiò una terribile pestilenza tanto che la popolazione veniva decimata senza alcuna misericordia. Non sapendo più cosa fare Edipo decise di recarsi a Delfi per consultare l’oracolo, che diede un responso talmente oscuro che nessuno ne capì il significato. Disse infatti che la pestilenza sarebbe cessata solo quanto il responsabile della morte di Laio, il vecchio re di tebe, sarebbe stato punito.

Edipo che non comprendeva il significato di quelle parole fece allora chiamare Tiresia, il più grande fra gli indovini del tempo che però era reticente a svelare il significato delle parole dell’oracolo tanto che alla fine Edipo fu costretto a minacciarlo per farsi raccontare la verità. Fu così che Edipo apprese che la sua patria non era Corinto ma Tebe e che non era un vecchio viandante che aveva ucciso prima di giungere nella città ma Laio, suo padre e che non avrebbe dovuto unirsi a Giocasta perchè era sua madre, quindi era lui, l’inconsapevole responsabile delle disgrazie che affliggevano Tebe.

Giocasta, non credendo a quelle parole, cercò di convincere Edipo che il bambino, nato tanti anni fa, era ormai morto. Ma destino volle che in quei giorni capitò a Tebe un messaggero di Corinto il quale, interrogato da Edipo, svelò che lui non era figlio naturale di Polibo ma che era stato adottato perchè trovato, ancora in fasce, tra i monti Citerone. Nel contempo fu convocato a corte l’araldo che aveva accompagnato Laio al quale venne chiesto di fornire chiarimenti sulla morte del vecchio re e questi svelò a Edipo che il viandante che lui aveva ucciso lungo la strada per Tebe in realtà era Laio.

A quelle parole la mente di Giocasta vacillò e per il dolore e la vergogna si impicco (secondo altre versioni sarebbe stata uccisa dopo che morirono in duello i figli Eteocle e Polinice).

Edipo, non potendo sopportare tanto dolore si accecò e scacciato da Tebe, maledisse i figli e iniziò un viaggio che lo avrebbe condotto in terre lontane fino a essere dimenticato da ogni persona e cosa del creato (secondo altre versioni fu accompagnato dalla figlia Antigone).

Edipo e la Sfinge di Gustave Moreau
Edipo e la Singe, Moreau Gustave, 1864,
olio su tela, Metropolitan Museum of Art, NY

Così ci racconta i fatti Stazio (Tebaide, I 49 e sgg. Traduzione Cornelio Bentivoglio)

(…) mostrando al cielo
le vuote cave de la cieca fronte,
perpetua pena a l’infelice vita,
e con le man sanguigne il suol battendo,
l’orribil voce in cotai detti ei sciolse:
– O crudi numi de l’eterna notte,
che i neri abissi e l’alme scelerate
co’ supplicii reggete; e voi, stagnanti
laghi di Stige, che senz’occhi ancora
io veggo pure; e tu da me sovente,
Tesifone, invocata, a i fieri detti
porgi l’orecchio e il voto reo seconda.
Se teco meritai, se di te degno
sono; se ne l’uscir dal matern’alvo
mi raccogliesti; se l’infermo piede
mi risanasti; se al bicorne giogo
ed a l’onda Cirrea mi fosti scorta;
(quantunque meglio io mi vivea contento
di Focide nel trivio e ne la rocca
di Polibo da me creduto padre);
se per te sola con quest’empia mano
lo sconosciuto vecchio padre uccisi,
e spiegai de la Sfinge i sensi oscuri;
se dolci furie nel materno letto
per te gustai e più nefande notti,
e a te i miei figli generai; se gli occhi
svelsi di fronte e a l’infelice madre
gittai d’avanti: or le mie preci ascolta,
e accorda a me quel che per te faresti.
Gli empi miei figli (e che rileva il modo?)
ch’io generai, non che del padre afflitto,
de l’alma luce privo e del suo regno,
pietà li prenda o cura, e il suo dolore
temprin co i detti: essi già Re nel nostro
trono sedendo dispettosi a scherno
han le tenebre nostre, ed hanno a sdegno
le paterne querele. A questi ancora
io sono in odio? E pur sel vede Giove?
E pur lo soffre? Ma se a lui non cale,
fanne tu almeno aspra vendetta, e passi
anche a i figli de i figli il rio flagello.
Cingi la chioma de l’infausto serto,
che di putrido sangue ancora intriso,
rapito un tempo fu da la mia mano;
ed istigata da’ paterni voti
va’ tra gli empii fratelli: il ferro ostile
tronchi del sangue i sacri nodi; e sia
tal l’eccesso che ordisci, o dea d’Averno,
ch’io sospiri d’aver lume che il vegga.
Vieni tu quale a te conviensi, e pronti
per ogni via ti seguiran gl’iniqui,
nè potrai dubitar che sien miei figli.(…)

Gli dei, mossi a pietà per la sorte che si era accanita contro un uomo, non artefice del suo destino, gli concesse di trovare pace nella città di Colono, nell’Attica, dove morì.

Secondo Omero e Pausania la storia si svolse in modo diverso: Edipo non ebbe alcun figlio da Giocasta e quest’ultima si uccise non appena saputo dell’incesto ed Edipo a quel punto si sarebbe sposato con Euriganea dalla quale avrebbe avuto quattro figli e regnò su Tebe fino alla fine dei suoi giorni.

Questo mito è stato molto studiato e interpretato dalla psicanalisi e in particolare da Sigmund Freud che ispirò Carl Gustav Jung che coniò il termine “Complesso di Edipo”, per spiegare la maturazione di un bambino attraverso l’identificazione con il genitore del proprio sesso e il desiderio nei confronti del genitore di sesso opposto.

Edipo e Antigone a Colono, dipinto di Fulchran-Jean Harriet,
Edipo a Colono, accompagnato da Antigone,

Con questa breve raccolta di informazioni su questo enorme mondo spero di esservi riuscita ad appassionare anche solo un pò. 😉

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OLIMPO

ALBERO GENEALOGICO

Kiss Kiss Katrine Petrova

 

 

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